Storie di bimbi e genitori speciali che hanno scelto di offrire la loro esperienza a tutti voi.


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Maria
Era la mia prima gravidanza e, a parte le nausee dei primi mesi, tutto pareva procedere per il meglio, come era normale che fosse per una ragazza sana di 29 anni. La nascita era prevista per l’inizio di novembre 1997, ma il 24 luglio, all’uscita dal lavoro, si verifica un fatto “strano”. Sono spaventatissima; telefono al mio ginecologo e gli dico di avere “perdite trasparenti”. Mi dice di passare a studio e mi visita: mi dice che si sono rotte le membrane e il liquido amniotico sta uscendo (altro che “perdite trasparenti”, si erano rotte acque!!), l’utero si sta appiattendo e occorre un ricovero urgente. Gli chiedo quante possibilità ci sono che la gravidanza prosegua e mi risponde che ce ne sono poche; mi ricovereranno e con l’immobilità e le cure proveranno ad evitare infezioni e a non indurre il travaglio il più a lungo possibile.
Arrivo terrorizzata all’ospedale e, con un presagio tremendo, chiedo alla dottoressa che mi visita e mi conferma la possibilità di un parto imminente, se potrò avere altri figli!
Mi impongono l’immobilità, iniziano le flebo di vasosuprina e la somministrazione di bentelan per rinforzare i polmoni della piccola, poi ecografie di controllo, monitoraggi ecc. Intanto qualcuno mi parla della possibilità di “aborto” e la sola parola mi fa orrore, mi pare offensiva verso mia figlia. Ovviamente non conoscevo il limite temporale che scientificamente discrimina l’aborto dal parto prematuro (vale a dire prima o dopo il 180° giorno dal concepimento)
Sono talmente frastornata che per lo più non riesco a trovare la concentrazione per pensare e, comunque, quando penso ho paura. Dai monitoraggi non c’è cenno di contrazione; con molta cautela mi dicono che il liquido amniotico residuo è davvero scarso, però si può riformare e la gravidanza potrebbe proseguire; per avere un certo margine di sicurezza circa le possibilità di sopravvivenza della bambina bisognerebbe arrivare almeno ai sette mesi di gestazione.
Si arriva al 27 luglio, una domenica; nel pomeriggio iniziano le contrazioni, il travaglio si fa inarrestabile. Mi avevano comunque preannunciato che se non fosse accaduto naturalmente, si rendeva necessario un cesareo urgente; mi avevano anche informato che la bimba poteva nascere già morta.
Mio marito, al quale è stato richiesto di scegliere i nomi (non sapevamo ancora il sesso), mi chiede se confermare quelli scelti e io gli rispondo d’istinto di no, niente sta andando come previsto e dunque cambiamo anche i nomi: sono Maria o Giuseppe, non perché sia particolarmente devota ma per una istintiva ricerca di protezione o di raccomandazione soprannaturale. Alle 19,00 nasce Maria, pesa 580 gr.; sento il suo pianto e vedo allontanarsi a velocità rapidissima una incubatrice avvolta da un telo bianco.
Il giorno successivo sono molto confusa, penso che la mia bimba morirà nel giro di poco tempo e allora non voglio vederla, perché, penso, così non mi affeziono neppure e ne soffrirò meno la perdita. Con molta delicatezza cercano di avvicinarmi a lei; l’ostetrica che ha assistito al parto mi dice che è molto agguerrita e che questo è un buon segnale; il ginecologo che ha fatto nascere Maria mi cerca per parlarmi, è molto disponibile e comprensivo, mio fratello mi riferisce che le hanno messo un cappellino bianco ed è molto carina.
A due giorni dalla nascita decido di vederla con mio marito; il reparto di patologia neonatale è pieno di foto e storie a lieto fine che mi sollevano un po’ lo spirito; l’atmosfera però cambia con l’arrivo del pediatra di turno che riesce a farmi sentire un mostro (forse lo sono davvero stata, me lo sono rimproverata a lungo) accogliendomi con un “Finalmente la mamma!”, poi ci spiega che la sopravvivenza della piccola è a rischio, che nelle situazioni di prematurità estrema ogni caso ha una evoluzione propria e quindi non si può ipotizzare nulla sulla eventuale qualità della vita.
Ci bardiamo con camice, cappello e copriscarpe sterili ed entriamo: ci sono tre bimbi, ma Maria è la più piccola; come la vedo, minuscola eppure perfetta, mi conquista . Non credevo che un esserino tanto piccolo fosse già così compiuto.
Nei giorni successivi la vedo sempre, familiarizzo con il reparto e le infermiere, tutte dolcissime ed incredibilmente esperte con questi piccolissimi; sono loro che mi incoraggiano ad accarezzarla e lei sembra accorgersi di me, sgambetta, muove le braccia, mi stringe il dito con le manine! Le cose mi dicono vanno discretamente, i medici sono in contatto con i neonatologi del Bambin Gesù ma bisogna avere molta pazienza ed essere cauti.
Il 30 luglio vengo dimessa, dopo un raschiamento. Il ritorno a casa mi provoca angoscia; penso sempre alla mia bimba che avrebbe dovuto essere con me ed invece… provo un senso di inadeguatezza terribile, sono stata incapace a svolgere il ruolo naturale di mamma, anziché proteggere mia figlia l’ho fatta nascere, esponendola a gravissimi pericoli. Intanto continuano le visite al reparto, i colloqui con i pediatri, si rende necessario un intervento a Maria per l’inserimento di un catetere per l’alimentazione. Le infermiere intanto hanno soprannominato la piccola “Maria mezzochilo” e con i medici continuano ad apprezzare il suo impegno nella lotta per la vita.
Ad un certo punto, fra momenti di panico assoluto e tentativi di razionalizzare la situazione, peraltro fallimentari, arrivo a convincermi che l’esito della vicenda sarà comunque “netto”: se mia figlia sopravviverà non riporterà alcuna conseguenza dalla nascita prematura. Cerco di essere ottimista ma mi preparo anche al peggio.
Passano così venti giorni, tra i più dolorosi della mia vita poi ci sono le oscillazioni di peso, qualche crisi respiratoria, i prelievi, gli esami quotidiani…..
La mattina del 17 agosto una telefonata ci avverte che la situazione d’improvviso è precipitata e le speranze sono al lumicino. Maria muore alle 9.00, dolcemente, mi dice mio marito, perché io non ce l’ho fatta ad assistere.

Silvia
Il dolore seguito alla morte di mia figlia è stato così intenso che mi sembrava non potesse semplicemente sfogarsi nel pianto. E ancora oggi credo non si possa trovare una maniera per esprimerlo pienamente, perché nulla può essere così terribile e innaturale per un genitore quanto vivere l’esperienza della morte di un figlio, anche se vissuto poco tempo.
Ma proprio in situazioni così estreme si scoprono nell’animo risorse sconosciute; è strano riportare i sentimenti contrastanti che si agitano in chi prova una situazione del genere, anche se, leggendo testimonianze di persone diverse, si ritrovano molti aspetti coincidenti.

Il dolore, la difficoltà di accettare ed elaborare il lutto sono certamente una durissima prova per entrambi i genitori, anche se credo che nella donna assumano connotazioni del tutto peculiari.
La ricerca di una nuova maternità in tempi brevi è per tutte l’unica prospettiva che si intravede per il futuro; più che il coraggio (io non sono affatto una persona coraggiosa) è il senso di sconfitta che sollecita una ripresa, quasi una rivalsa, poiché, diciamolo pure, da una donna un’esperienza simile viene percepita anche come fallimento nell’unica funzione che le è propria.

Al tempo stesso la storia passata condiziona comunque l’approccio psicologico alla nuova maternità. Anch’io ho voluto indagare sulle cause del mio parto pretermine e conoscere in quale maniera potessero incidere su una nuova gravidanza. Ovviamente l’analisi non è stata allora così lucida e razionale. Ricordo il colloquio con il mio ginecologo durato circa due ore e interrotto da lacrime e singhiozzi nel corso del quale mi spiegava che la causa del parto prematuro era stata una incontinenza cervicale (della quale non c’era stato il minimo indizio) che avrebbe potuto essere trattata in una successiva gravidanza. Mi disse che avrei dovuto osservare il riposo assoluto, sottopormi ad intervento di cerchiaggio cervicale e ad una terapia farmacologica per cercare di protrarre la durata della gravidanza fino ad un termine accettabile.
Abbiamo affrontato coscientemente una seconda gravidanza comunque problematica e, pure tra mille paure, mi ha sempre sostenuto la consapevolezza che stavolta sarebbe andata bene. Devo dire comunque che ho seguito con zelo ogni indicazione del mio ginecologo: ho trascorso a letto oltre sette mesi (dal test a gennaio alla rimozione del cerchiaggio a fine agosto 1998), affrontato il cerchiaggio alla 15° settimana, sopportato il bombardamento di vasosuprina, di antibiotici per infezioni sopraggiunte, di un ciclo di cortisone al settimo mese per favorire la maturità polmonare in caso di parto prematuro.
Non sono mancati naturalmente momenti in cui l’ottimismo a cui ho accennato è stato sopraffatto da episodi di cedimento psicologico, uno dei quali legato al ricovero per il cerchiaggio, quando, il giorno stesso del ricovero, mentre il mio ginecologo aveva fissato la data dell’intervento dopo alcuni giorni di terapia preventiva per rilassare l’utero e scongiurare un aborto, mi mettono in nota per l’intervento! Dopo proteste varie ottengo il rinvio. Ma non basta ancora: due giorni dopo un altro medico di turno mi convoca a visita e mi dice che mi sono “convinta” dell’utilità del cerchiaggio, mentre invece mi avrebbe procurato infezioni tanto da “farmi fare la fine dell’altra volta”. Di fronte alla mia replica, inizialmente decisa ma poi interrotta dai singhiozzi, ha annotato sulla mia cartella che si poteva valutare l’intervento in relazione allo stato psicologico alterato della paziente! Riepilogando: l’intervento è programmato con la terapia preventiva; all’atto del ricovero diventa urgente, poi non serve affatto, anzi potrebbe nuocere. Comunque parlo con il mio ginecologo (in ferie nei giorni del “balletto di diagnosi”) il quale mi tranquillizza, confermandomi che alla data stabilita sarà lui ad operarmi come previsto, riferendosi alle maniera a dir poco brutali del suo collega (il secondo citato) mi dice “Purtroppo ci sono persone così”.
Comunque l’intervento va bene e la mattina di Pasqua vengo dimessa.
Altra fase critica di tensione l’ho vissuta in concomitanza con la 24°-25° settimana. In generale, comunque, durante questa gravidanza ho subito un totale abbruttimento: all’inizio pensavo di mettere a frutto i mesi di riposo con la lettura invece a mala pena sfogliavo i quotidiani, trascorrendo la gran parte del tempo a dormire.
Con il passare del tempo, comunque, si iniziava a intravedere la luce; così ho accolto con gioia esagerata la notizia che il ginecologo mi ha dato alla 34° settimana di uscire a pranzo: era Ferragosto e sono di quel giorno le uniche foto (tre) della mia pancia.
Alla 36° settimana, come da programma, viene rimosso il cerchiaggio: evviva! Il ginecologo pronostica che il parto sarebbe avvenuto entro 10-15 gg. Ora che sono libera di muovermi (si fa per dire, è fine agosto, fa un caldo atroce, sono come una mongolfiera e disabituata a muovermi) penso sia il momento di comprare il corredino e la carrozzina.
Intanto la mia pressione sale , viene tenuta sotto controllo e il medico mi fissa la data del ricovero per stimolare il parto; la sera prima però il travaglio sopraggiunge spontaneamente e all’1.33 del 4 settembre nasce Silvia, 37 settimane e 3,700 kg! Una bella vittoria!
Non faccio in tempo a gioire che sono di nuovo in sala operatoria, per un capillare da suturare: Sono le 4 del mattino e, ormai stremata, chiedo all’anestesista se mi sarei risvegliata! Ho faticato un po’ (era la terza anestesia generale in tredici mesi) ma mi sono svegliata, con l’emoglobina a terra. Sono rimasta otto giorni ricoverata, poi mi sono fatta circa due mesi di day hospital per sottopormi a flebo di ferro, così ho evitato le trasfusioni e la mia emoglobina ha recuperato valori accettabili.
In compenso Silvia è sempre stata bravissima, nel mangiare (allattamento artificiale, anche lì non ho saputo fare la mia parte di mamma) come nel dormire ed oggi è uno spendido “topisio” (come dico io) di 5 anni che ci riempie di gioie.

La mia storia, che credevo unica nel momento in cui è accaduta , è invece simile a molte altre e, come le altre, testimonia che il desiderio di un figlio è più forte di ogni paura e la sua realizzazione compensa qualunque sacrificio, cura o trattamento medico, addolcendo il dolore senza certo cancellare i ricordi. Qualcuno mi dice se penso ad un secondo figlio; già, nel sentire comune un bambino nato prematuro e vissuto poco tempo è un bambino che non c’è mai stato ed il fratello che viene dopo ne prende il posto. Questa è una delle tante opinioni sciocche che si traducono in frasi altrettanto stupide. Ne ho sentite direttamente (e sentite o lette) tante;, quella a cui assegno, nel mio caso, l’Oscar è:“E’ andata meglio così” che oggi, come allora , mi fa imbestialire: verrebbe da dire “Ma la cosa migliore è stata dunque che mia figlia sia morta? Cosa poteva esserci di peggio?” Ancora più aberrante è il seguito che qualcuno si è premurato di aggiungere” Poteva avere delle conseguenze gravi” bene, quindi un genitore si deve augurare che un figlio con problemi gravi muoia? Ancora oggi non so come commentare.
Ma torniamo alla domanda “Allora, a quando il secondo figlio ?” io rispondo che Silvia è la seconda figlia; la prima è stata Maria che resta sempre nel nostro cuore. Quanto ad un’altra gravidanza, ho detto di non essere affatto coraggiosa e con le esperienze vissute ho dato fondo a tutte le mie modeste risorse psico fisiche Certo, riconosco una certa dose di egoismo nel rinunciare a un altro fratellino per Silvia, come desidererebbe anche mio marito, ma proprio non riesco ad immaginare di rivivere tanta paura.

pubblicato il 29 dicembre 2003